Selfie estremi e video alla guida: perché lo facciamo? Perché rischiamo?
Abbiamo intervistato la psicologa Emma Lo Magro scoprendo cose molto interessanti. Dietro questi comportamenti, che sarebbe riduttivo liquidare come stupidi, si nasconde un forte bisogno di relazioni che, però, non sappiamo gestire e da cui fuggiamo
(15 luglio 2019)
Alcol e droghe, ma anche distrazioni fatali per scattarsi un selfie o girare un video, sono oggi le maggiori cause, insieme alla velocità, di molti incidenti stradali. Le decine di vittime di questo fine settimana, in tutta Italia, tutte giovani e tutte strappate al fiore degli anni mentre trascorrevano un sabato sera di divertimento, non fanno eccezione. Come del resto i giovanissimi cugini, Alessio e Simone, travolti giovedì sera a Vittoria da un suv guidato da un uomo in stato di ebbrezza e sotto effetto di droghe, ma anche la giovane avolese Roberta Racioppo, 21 anni, travolta e uccisa la scorsa settimana dopo aver trascorso una serata in un locale della zona e la 25enne Martina Aprile travolta anche lei per strada, questa volta a Cava D’aliga da un giovane sotto effetto di cocaina e metadone. Solo pochi mesi fa, sull’argomento della sicurezza stradale, riportavamo l’autorevole opinione del comandante della Polizia stradale di Siracusa, Antonio Capodicasa che, oltre ai rischi del mettersi alla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di droghe, tornava a puntare il dito sull’uso spregiudicato degli smartphones o di qualsiasi altro dispositivo elettronico durante la guida, quali crescenti cause di incidenti, spesso mortali.
È il caso dello schianto di Alcamo, dove a perdere la vita è stato un tredicenne, morto sul colpo mentre viaggiava all’interno dell’auto guidata dal padre, e il fratello minore versa in condizioni disperate. Poco prima dell’incidente pare che il padre dei due ragazzini avesse filmato e postato su Facebook un video, perdendo subito dopo il controllo del mezzo. “È sempre colpa dei telefonini. Se si posassero alla guida, molte tragedie potrebbero essere evitate, poveri bambini”, questo il commento di una donna, uno dei tanti comparsi sul profilo social del padre dei due piccoli, anch’egli ferito nello schianto ma in maniera meno grave. Per molti è una moda irrinunciabile, è entrata a far parte dei nostri gesti e delle nostre abitudini, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. I selfie e i video che milioni di utenti postano e seguono sui principali social sono divenuti, gradualmente e a tutti gli effetti, pericolosi strumenti di morte perché, come testimoniano i recenti episodi, bisogna esibirsi e farlo in maniera sempre più estrema, meglio ancora se sul filo del rasoio. Sono giovani e meno giovani coloro che si “mostrano” ad un potenziale pubblico di followers, anche mentre sfidano la morte, come nel caso dei Daredevil selfie, e lo fanno senza apparente paura proprio perché più è pericoloso, più sarà d’impatto mediatico. Ma qual è il confine tra la goliardata e il pericolo? Quando un selfie rimane un innocente gesto fatto per comunicare e quando, invece, ha un indice di criticità? Ne abbiamo parlato con la psicologa Emma Lo Magro. “L’utilizzo dei selfie e dei video – spiega a Ialmo – è legato al nostro bisogno personale di contatto. Ormai accade sempre più spesso perché si è persa la capacità di stabilire un contatto tra le persone, dal punto di vista corporeo. Spesso mancano gli spazi d’incontro, di socializzazione. L’essere umano sente la necessità di stabilirlo questo contatto e per questo utilizza i mezzi più semplici, che sono i social”.
Perché i più semplici?
Perché il social non ti dà una risposta immediata, non è un dialogo o un co-creazione, è più un “io ti faccio vedere, ti dico, ma tu non mi puoi dare risposta”, quindi non c’è un’interazione. Le risposte verranno, ma in un secondo momento, in seguito magari ad una mediazione, quindi in ogni caso non saranno spontanee come se si fosse interagito al momento e di persona.
Quindi questo mostrarsi nasconde un bisogno di socializzare, ma non porta a nulla di concreto, è sterile?
Certo, sostanzialmente è un’esibizione per attirare l’attenzione dell’altro, ma non è relazionale. La relazione non si stabilisce perché in realtà c’è paura di relazionarsi con gli altri, paura del loro giudizio. Questa è una società che ha paura delle relazioni e per questo tende a desensibilizzarsi. Perché per costruire una relazione ci vuole impegno e i giovani specialmente non voglio impegnarsi. Spesso, i miei pazienti giovani mi dicono che se una persona non gli piace non ci parlano, tagliano, evitano i rapporti. Loro non si impegnano per provare a fare funzionare una relazione, un’amicizia.
Perché non si impegnano?
Perché è più facile evitare, scappare, anziché provare a risolvere i conflitti. L’alternativa sarebbe affrontarli e in conseguenza di ciò sentirne il dolore, affrontare l’angoscia dell’altro ma non si è disposti a “sentire”, perché farebbe soffrire.
Quindi questa società va irrimediabilmente verso questo tipo di relazioni?
No, intanto perché “irrimediabilmente” per me che svolgo questo lavoro è una parola troppo forte. Poi perché il primo lavoro che possiamo fare è a scuola con gli adolescenti. Per ottenere un cambiamento relazionale si deve partire dai giovani. Il lavoro dei professori, degli educatori dovrebbe essere quello (anche se troppo spesso non lo è…) di sensibilizzare alle dinamiche di gruppo, aumentando la sensibilità e l’empatia verso l’altro.
In altre parole, spingerli a sentire?
Si, la domanda dovrebbe essere continuamente: “Come ti senti, come ti fa sentire questa o quella situazione?”, in modo che i ragazzi prendano contatto con il loro sentire corporeo che poi diventa anche sentire emotivo. Riconoscere il sentire corporeo diventa un riconoscere le emozioni, e questo da consapevolezza di se stessi. In cosa si traduce tutto ciò? Ci aiuterà ad avere maggiore forza nel vivere le relazioni e le emozioni.
E quindi questo bisogno di fare selfie e video fatti in condizioni estreme come si traduce?
Si traduce in questo modo, se imparo a riconoscere le mie emozioni e quelle dell’altro nel rapporto che stabilisco, non andrò più alla spasmodica ricerca di altre emozioni in attività che possono essere pericolose, perché mi basterà guardare una persona negli occhi per sentirmi già piena delle emozioni che mi dà. Oggi questo non avviene più: non perché le persone non si incontrano, ma perché non sentono la bellezza di stare con l’altro e, soprattutto nei momenti di difficoltà, lo rifuggono.
Come ci accorgiamo se queste nuove abitudini lasciano la sfera della normalità per rivelare invece delle criticità?
Quando queste attività diventano predominanti rispetto alle mie necessità, ad esempio: se devo lavorare e comincio a distrarmi, se la notte non dormo più perché il mio pensiero è al social, se la mia vita subisce un radicale cambiamento perché sono distratta e svogliata e ho alterato il mio ritmo sonno – veglia, allora è segno che c’è qualcosa che non va.
Nadia Germano Bramante