La storia del Feudo Arancio: manuale d’orientamento per quelli che … ‘a Ragusa non c’è mafia’
Dieci anni dopo da Trento la conferma alle indagini condotte a Ragusa dal colonnello della Gdf Fallica, trasferito dopo avere scavato anche sulle infiltrazioni nel mercato di Vittoria
(21 marzo 2020)
Dieci anni fa il superlavoro dell’allora comandante provinciale della Guardia di Finanza di Ragusa Francesco Fallica finì in un nulla di fatto anche perché, forse, la Procura iblea, allora diretta da Carmelo Petralia – attualmente indagato per calunnia aggravata nel procedimento connesso al depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio – non credette molto in quelle indagini o, quale che ne fossero le ragioni, non ritenne di portare avanti con convinzione l’inchiesta.
E Francesco Fallica, colonnello delle Fiamme gialle incline alle indagini di sistema contro la mafia e attualmente esporto economico-finanziario presso l’Ambasciata italiana in Brasile, poco tempo dopo fu trasferito, con l’ulteriore conseguenza che le sue investigazioni contro il filo delle infiltrazioni mafiose nel mercato ortofrutticolo di Vittoria, riconducibili anche al clan dei Casalesi, furono fermate.
Ma la vicenda del Feudo Arancio di Acate, posto sotto sequestro dieci anni fa dal Tribunale di Ragusa (con successivo dissequestro e archiviazione delle indagini) è tutt’altro che chiara. Anzi, di chiaro sembra esserci solo la tracciabilità della sua storia, tutta dentro gli affari di Cosa Nostra fino al passaggio al gruppo trentino Mezzacorona.
E quali siano stati i passaggi sottostanti lo hanno chiarito diversi collaboratori di giustizia che hanno dato nuovo impulso alle indagini, questa volta condotte dalla procura trentina che, anche in questo caso, si è affidata alla locale Guardia di finanza.
E così i risultati, dieci anni dopo, riportano alle risultanze investigative centrate da Fallica.
La tenuta Feudo Arancio comprende un’ampia distesa di vigneti a Sambuca di Sicilia nell’Agrigentino e ad Acate nel Ragusano e intreccia la sua storia con un filo rosso che parte dai cugini Ignazio e Nino Salvo e giunge a Matteo Messina Denaro.
Il nuovo provvedimento è stato firmato dal gip di Trento Marco La Ganga, su richiesta dei pubblici ministeri Sandro Raimondi, Davide Ognibene e Carmine Russo. Sotto inchiesta per riciclaggio sono finiti Fabio Rizzoli, ex amministratore delegato del gruppo Mezzacorona, proprietario della tenuta e della cantine; Lucio Rigotti, presidente del consiglio di amministrazione, e i siciliani di Salemi Gian Luigi Caradonna e Giuseppe Maragioglio.
I finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria di Trento si sono concentrati su alcune operazioni avvenute nel 2001 e nel 2003. In particolare sulla compravendita di terreni ad Acate e Sambuca di Sicilia appartenuti ai cugini Salvo, titolari della società Satris, che gestiva la riscossione delle imposte in Sicilia, arrestati nel 1984. Ad incastrarli furono inizialmente le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta, raccolte dal giudice Giovanni Falcone. I Salvo erano tra gli imputati del maxi processo dell’86, rappresentavano l’anello di congiunzione tra Cosa Nostra e la politica. Nino morì prima dell’inizio del dibattimento. Mentre Ignazio Salvo fu successivamente condannato in primo e secondo grado e poi – il 17 settembre 1992 – ucciso in un agguato.
I terreni, secondo l’accusa comprati dai Salvo con soldi sporchi, risultavano intestati alla Finanziaria Immobiliare spa, costituita nel 1966 con sede a Palermo. Era la società che gestiva le proprietà immobiliari dei cugini esattori.
Dopo la morte di entrambi, la Finanziaria Immobiliare passò di eredi in eredi, fino a quando nel 1998 il ramo d’azienda costituito da tre realtà agricole ad Acate (Ragusa), a Sambuca di Sicilia (Agrigento) e Mazara del Vallo (TP) fu ceduto per dieci milioni di lire alla Agroinvest di Gian Luigi Caradonna, nipote di Nino Salvo, e Giuseppe Maragioglio. Quest’ultimo è considerato uomo di fiducia degli esattori. I terreni furono infine rivenduti in due distinte operazioni per 47 miliardi di lire al Gruppo Mezzacorona.
Dopo la morte dei cugini Salvo a gestire i beni erano stati i due generi di Nino, Giuseppe Favuzza e Gaetano Sangiorgi, i quali, attraverso varie operazioni societarie trasmisero la proprietà formale del patrimonio a Caradonna e Maragioglio.
Di Favuzza e Sangiorgi parlarono i collaboratori di giustizia Gioacchino La Barbera, (uno dei testimoni chiave nel processo contro gli assassini del giudice Falcone nonché colui che diede materialmente il segnale per far partire l’attentato di Capaci) e Vincenzo Sinacori. I due pentiti raccontarono che Favuzza, dopo l’omicidio di Ignazio Salvo, era stato chiamato a gestire i beni. Temendo per la sua vita avrebbe chiesto un salvacondotto a Cosa Nostra. Si sarebbero svolte delle riunioni alla presenza, tra gli altri, dei boss Michelangelo La Barbera, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro. Favuzza fu tranquillizzato: nulla di grave gli sarebbe accaduto, manteneva la titolarità dei beni dei Salvo, ma la gestione doveva passare all’altro genero, Tani Sangiorgi, organico alla mafia.
A parlare di Caradonna fu Brusca che lo ha definito “persona di fiducia di Nino Salvo, l’amministratore e la mente di Nino”, aggiungendo che “dopo l’omicidio di Ignazio Salvo comandano Caradonna, Antonino Salvo (nipote di Nino, dentista) e Tani Sangiorgi”, che “Caradonna era specializzato per riciclare i soldi… che ai livelli dei Salvo tutte le ricchezze si era studiato come tutelarle da sequestri e confische”.
Nel periodo in cui la gestione dei fondi di Acate e Sambuca era nelle mani di Favuzza e Sangiorgi, attraverso il nipote Caradonna e il prestanome Maragioglio, avvenne la vendita al Gruppo Mezzacorona. Il 16 febbraio 2001 Rizzoli e Caradonna stipularono il contratto di cessione di azienda da Agro Invest sas (di cui era accomandatario Caradonna) a Silene srl (società del gruppo Mezzacorona, che era stata costituita tre mesi prima). Agate Invest fu pagata con tre assegni.
Una seconda analoga operazione – ricostruisce Live Sicilia – avvenne nel 2003: Villa Albius srl (società del gruppo Mezzacorona, costituita circa due mesi prima) acquistò da G.&G. sas (di cui sono soci unici Caradonna e Maragioglio) terreni e costruzioni rurali. Caradonna e Maragioglio ricevettero denaro “pulito” proveniente dalle banche fiduciarie del gruppo Mezzacorona (la Cassa rurale di Rovereto, la Cassa di risparmio di Bolzano e la Banca di Trento e Bolzano) di cui si perdevano le tracce immediatamente dopo il loro pagamento.
“In tal modo veniva realizzato lo scambio terreni denaro tale da sottrarre i beni immobili a possibili – scrive il giudice – sostituendoli con denaro contante facilmente occultabile, ma ancor di più agevolmente a sua volta riciclabile, come in effetti è avvenuto”.
Quanto alla notorietà dei collegamenti mafiosi dei proprietari dei beni decisive sono state le dichiarazioni dello stesso Fabio Rizzoli, che nel 2013 al procuratore della Repubblica di Ragusa riconosceva che l’operazione era stata autorizzata dal carcere dal nuovo capo della famiglia Salvo, Gaetano Sangiorgi. Rizzoli riferì di avere chiesto notizie a Girolamo Ditta, titolare di una società di Mazara del Vallo: “… mi rispose subito che per il momento non se ne poteva fare niente. Mi spiegò che uno degli eredi dei proprietari era in carcere e se non vi fosse stato il suo benestare nessuna vendita si sarebbe potuta realizzare… solo dopo alcuni mesi mi fece sapere che la situazione del terreno di Sambuca di Sicilia si era sbloccata perché, come mi parve di capire, l’erede dei Salvo detenuto era stato condannato all’ergastolo”. Sangiorgi è stato condannato all’ergastolo per l’assassinio di Ignazio Salvo. Fece da basista per l’agguato.
Parlando di Caradonna, Rizzoli aggiunse: “Ho conosciuto il Caradonna sin dalla mia prima visita al fondo di Sambuca di Sicilia….stava all’interno della proprietà, davanti al baglio, con atteggiamento padronale ed ostentando uno stile che non definisco ma descrivo nel modo seguente: abito gessato, occhiali scuri da sole, sigaretta con lungo bocchino. Grassa, che era in confidenza con il Caradonna, mi spiegò che quest’ultimo aveva la delega per la vendita. Da quel momento ogni trattativa fino al definitivo atto di acquisto venne tenuta con il Caradonna”.
Rizzoli, quindi, era consapevole che per chiudere la trattativa serviva l’autorizzazione dal carcere di Sangiorgi.
Della vendita dei feudi a Mezzacorona ha parlato anche un altro collaboratore, Maurizio Di Gati, un tempo capomafia di Agrigento: “… i cugini Salvo avevano un grosso feudo a Sambuca di Sicilia che poi è stato acquistato da imprenditori del nord. A quel punto il feudo lo voleva gestire Leo Sutera (fedelissimo del boss latitante Matteo Messina Denaro, ndr), Gli imprenditori del Nord non erano propensi ad avere contatti e quindi per convincerli sono state organizzate delle spedizioni al nord dove questi imprenditori avevano i loro interessi. Al termine di queste attività venni a sapere che vi fu un accordo nel senso che nell’amministrazione e nella produzione entrarono persone di fiducia di Leo Sutera e quindi anche mia. L’obiettivo principale era quello di mettere almeno due persone di fiducia all’interno dell’azienda e il Sutera rassicurò in tal senso. Sutera inserì un ragioniere e una persona che gestiva l’azienda più gli stagionali che lavoravano”. Di Gati ha aggiunto che l’operazione fu autorizzata da uno molto in alto nella gerarchia criminale: “Per quanto di sua conoscenza Matteo Messina Denaro disse che potevano muoversi ma che lui avrebbe voluto sapere l’esito dell’operazione. Ciò avvenne nel marzo-aprile 2002”.
E le responsabilità di Mezzacorona? “I vertici hanno erogato le ingenti somme all’organizzazione criminale Cosa Nostra, nell’ambito di una spregiudicata operazione commerciale, pur nella consapevolezza del comportamento di riciclaggio che stavano ponendo in essere, attesa la provenienza mafiosa dei beni e la necessità di attendere l’autorizzazione alla vendita del capomafia detenuto in carcere, soltanto perché allettati dalla possibilità di ottenere i terreni e gli edifici pertinenziali che avevano individuato come funzionali ai progetti di sviluppo del Gruppo. Non osta al sequestro il fatto che i terreni e gli edifici che furono oggetto delle due compravendite e trasferimenti di azienda che si assume costituire il riciclaggio siano attualmente di proprietà non degli indagati, ma di due società apparentemente estranee al reato dato che le stesse non possono nella sostanza considerarsi tali dovendo a tali società, in forza dei principi di rappresentanza, essere imputati gli stati soggettivi dei loro legali rappresentanti”.