Il dramma della tratta delle donne nigeriane raccontato in un documentario, a Siracusa
Si chiama “The Journey: Over the Sea" e, partendo dalla figura della 'madame' e dai riti juju, spiega i vari passaggi attraverso i quali si consuma questa tragedia, tra povertà e superstizione. L'obiettivo ora è quello di proiettarlo in Nigeria, per aiutare le vittime
(29 aprile 2019)
“The Journey: Over the Sea – Storie di tratta nigeriana“ è il titolo del documentario che ha inaugurato “Stay human – Dialoghi Umani” il primo di una serie d’incontri organizzati e promossi in libreria da Giosef (Giovani Senza Frontiere) Siracusa, l’associazione presieduta da Giulia Giambusso, che si occupa di attività e progetti in favore della gioventù, creando opportunità e favorendo iniziative che stimolino la partecipazione giovanile sia a livello locale che europeo.
Ospiti dell’iniziativa, che si è tenuta presso la libreria Zaratan di Siracusa “nata per raccontare e conoscere – come spiega Giulia Giambusso – la realtà tra umanità e arti visive e creare un momento di comunità, riflessione e condivisione di valori umani”, la documentarista e fotoreporter freelance modenese Francesca Commissari, co-autrice insieme al siciliano Francesco Frasca del documentario. “L’idea era proprio quella di utilizzare un luogo di riflessione come una libreria trasformandolo in luogo di confronto e di relazioni, in questo caso sul tema dei diritti umani, – racconta Giulia Giambusso – per generare non solo informazione ma anche narrazioni e contronarrazioni in grado di contrastare i discordi d’odio, all’insegna della nostra campagna di comunicazione e sensibilizzazione contraddistinta dagli hashtag #noallodio #nohatespeech. Per il primo appuntamento abbiamo scelto di approfondire il tema della tratta delle nigeriane ridotte in schiavitù per essere avviate alla prostituzione, argomento che volevamo affrontare con l’impiego di un linguaggio comunicativo differente e più introspettivo se vogliamo, quale è quello delle immagini e del reportage giornalistico”.
Obiettivo dal quale è partita anche Francesca Commissari, che con “The Journey: Over the Sea” conferma la sua passione per il tema dei diritti umani ai quali ha dedicato precedenti esperienze con testate internazionali quali: The Guardian, Observer, Internazionale, l’Espresso, Corriere della Sera, Ansa, El Nacional, Forum, Freitag ed altri.
Francesca come nasce l’idea di occuparti di un argomento “forte” come quello della tratta delle nigeriane?
Da anni ho scelto di occuparmi di argomenti che raccontassero le donne, da quattro anni a questa parte mi sono trasferita a Ragusa e in collaborazione con la Cooperativa Proxima, che si occupa proprio di vittime di tratta, ho documentato nei primi due anni la condizione delle donne rumene sfruttate nelle campagne del ragusano. In seguito, sono venuta a contatto con la comunità nigeriana di cui la cooperativa si occupa, e da li ho avuto l’idea di raccogliere le prime testimonianze per creare un vero e proprio archivio della tratta di donne.
Cosa differenzia questo lavoro da altri documentari che nel tempo sono stati realizzati sul tema?
La scelta che sta alla base è stata quella di non trattare dati e numeri, che alla lunga possono risultare freddi e poco indicativi del fenomeno, ma raccontare delle storie, approfondire il vissuto di queste ragazze, spesso inenarrabile.
Il documentario dura una ventina di minuti, in quanto tempo lo avete realizzato?
In tutto è durato un anno e mezzo, e abbiamo lavorato con 7 ragazze che si trovavano all’interno di un progetto di protezione, alle quali abbiamo chiesto di partecipare al documentario. Loro hanno accettato, dapprima cominciando a ricostruire storie di cui erano venute a conoscenza ma poi pian piano si sono aperte e hanno voluto raccontare e rivivere il loro drammi personali. L’intento del documentario era proprio questo, raccogliere delle testimonianze che, in futuro, possano essere d’aiuto alle altre ragazze che ancora oggi non sono riuscite ad uscire da questo tipo di schiavitù.
Cosa emerge da questi racconti? Chi sono queste ragazze avviate alla prostituzione?
Molte storie si somigliano, normalmente le ragazze, purtroppo sempre più in tenera età, vengono “reclutate” nei loro villaggi da familiari, amici o comunque persone vicine alla famiglia che vanno li con l’idea di aiutarle, infatti molto spesso la persona che le recluta è la cosiddetta “madame” come la chiameremmo qui in Italia, o “sponsor” come la chiamano nel loro paese. Parliamo di donne che hanno già fatto questo percorso verso l’occidente e dopo essersi prostituite tornano in patria da donne “realizzate” che di fatto diventeranno loro stesse le sfruttratrici delle più giovani e spesso sprovvedute a cui offriranno la possibilità di un riscatto sociale attraverso un lavoro. Questa promessa di successo è naturalmente destinata ad infrangersi per tutte quelle che, all’arrivo in Italia dopo un lungo e spesso terribile viaggio fatto di violenza e soprusi culminati con la tappa nelle cosiddette “Connection House” in Libia (case di prostituzione), si scontreranno ben presto con una simile realtà nella quale, ancora una volta, saranno rese schiave.
A quel punto che succede, non provano a ribellarsi?
E’ molto difficile, perché saranno tutte comunque tenute a tener fede ad un vero e proprio contratto, sottoscritto attraverso un tipico rito religioso con i loro sponsor, il Juju, un giuramento che vincola con maledizioni terribili, anche di morte per loro e i propri familiari, le ragazze trafficate, costrette a prostituirsi sulle strade italiane ed europee per ripagare il debito contratto con i trafficanti (tra i 20 e i 40mila euro) e quindi alle loro madame che esigono guadagni giornalieri sempre più ingenti e senza alcuna remora per il rischio corso da queste ragazze di contrarre malattie a causa di rapporti non protetti o gravidanze indesiderate. Su questo fronte, si registra una svolta proprio dalla Nigeria, dove lo scorso anno, a Benin city, nell’Edo State. è accaduto un fatto storico che potrebbe incidere sul futuro di molte ragazze vittime della tratta per lo sfruttamento sessuale. L’Oba (re) Ewuare II, massima autorità religiosa del popolo Edo (che vive in Nigeria e nella zona del delta del Niger), con un solenne editto ha obbligato i preti juju a non praticare più riti di giuramento che vincolano con maledizioni terribili le ragazze vittime di tratta.
Francesca che messaggio lancia il vostro documentario?
Agli italiani, che bisogna sempre approfondire sul tema dei diritti e dell’immigrazione, andando oltre le varie propagande politiche e gli errori nell’organizzazione dell’accoglienza nel nostro Paese, e per parlarne vorremmo presentarlo anche nelle scuole. Alle ragazze nigeriane, quello di aprirsi, di avere fiducia nell’affidarsi a chi potrà finalmente sottrarle alla schiavitù e ad un destino che gli è stato dipinto come ineluttabile ma che in realtà non lo è. Per fare questo vogliamo riuscire a proiettare il documentario in Nigeria. Il nostro scopo è sensibilizzare le ragazze e le famiglie sui pericoli della tratta, partendo proprio da quel Paese e provando a scardinare quella parte della loro cultura che fomenta il terrore e la superstizione.
Ci sveli i tuoi progetti per il futuro?
In continuità con questo lavoro, vorremmo approfondire la tematica dello sfruttamento a scopo sessuale ma questa volta dal punto di vista dei clienti. A questo proposito, con la Fink Production abbiamo lanciato una raccolta fondi per supportare il nuovo progetto all’indirizzo http://sostieni.link/21351”.
Nadia Germano Bramante