Ragusa, nei primi nove mesi del 2020 sono nate il 10% di imprese in meno rispetto al 2019
L’analisi di Confcommercio sugli effetti determinati dalla pandemia
(12 gennaio 2021)
Mentre l’eccesso di mortalità ancora non si vede dai dati dei registri camerali, è drammaticamente evidente il deficit di natalità. Nei primi nove mesi del 2020, in provincia di Ragusa, sono nate circa il 10% di imprese in meno rispetto al 2019. Secondo l’istituto Tagliacarne, la denatalità dovuta alla pandemia dovrebbe contare per circa il 20% complessivo di imprese alla fine del 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Basandosi sulle evidenze dei primi tre trimestri del 2020 e sulle suggestioni del Tagliacarne, Confcommercio provinciale Ragusa ha proceduto alla stima delle nuove imprese nate nel quarto trimestre prendendo come riferimento, per ogni settore, la media delle iscrizioni registrate nel secondo e terzo trimestre 2020, periodo contraddistinto dalle diverse misure di contrasto e contenimento dell’emergenza Covid-19 che hanno avuto e continuano ad avere effetti sull’attività delle imprese. Per il totale dei settori del commercio e dei servizi, le iscrizioni stimate per il 2020 risultano pari all’8% in meno; le mancate iscrizioni rispetto al 2019 sono pari al 15%.
“Occorre fare un’altra considerazione – spiega il presidente provinciale Confcommercio Ragusa, Gianluca Manenti – e cioè che si può partire dal presupposto che tutte le imprese sono associate ad una partita Iva, ma non tutte le partite Iva sono organizzate in forma di impresa. Ecco perché è difficile desumere con precisione il numero di partite Iva dalle fonti statistiche perché sotto il profilo occupazionale queste sarebbero identificabili, in prima battuta, con la posizione nella professione relativa ai lavoratori indipendenti o autonomi. Il tema, tuttavia, si
complica per due ragioni: in primo luogo, perché la posizione nella professione deve essere declinata secondo il profilo professionale, che può assumere, nel caso degli indipendenti/autonomi, la figura dell’imprenditore, del libero professionista, del lavoratore in proprio, del coadiuvante familiare, del socio di cooperativa o del
collaboratore; in secondo luogo, per il fatto che, nell’ambito dei limiti della legislazione fiscale, anche lavoratori dipendenti di aziende private e pensionati possono aprire una partita Iva. Si tratta, dunque, di figure che, a seconda degli adempimenti amministrativi, hanno l’obbligo di aprire una partita Iva, ma non necessariamente di iscriversi ai registri camerali, così come una frazione di liberi professionisti, variabile a seconda del settore di attività, può scegliere di organizzarsi in forma di impresa, che sia ditta individuale o società di persone o società di capitali e, in tal caso, soggetta all’iscrizione presso le Camere di commercio. A loro volta i lavoratori in proprio che svolgono l’attività come imprenditori commerciali ai sensi dell’art. 2195 codice civile, ossia attività industriali dirette alla produzione di beni e servizi, attività di intermediazione nella circolazione dei beni (il commercio vero e proprio) e attività di servizi (trasporti, logistica, alberghi, ristorazione e così via), devono iscriversi presso i registri camerali, figurando in tal modo come imprese nelle varie tipologie societarie, sebbene sotto il profilo delle statistiche sull’occupazione risultino ben distinti dagli imprenditori tout court. Detto questo, possiamo precisare che delle 240 imprese “sparite” dal mercato a causa della pandemia sul nostro territorio, l’81% si perdono per un eccesso di mortalità e il resto, quindi il 19%, per un deficit di natalità. Una riduzione del tessuto produttivo che risulta particolarmente accentuata tra i servizi di mercato, che si riducono del 13,8% rispetto al 2019, mentre nel commercio rimane più contenuta, ma comunque elevata, e pari all’8,3%. Confermiamo che tra i settori più colpiti, nell’ambito del commercio, ci sono abbigliamento e calzature, ambulanti e distributori di carburante; nei servizi di mercato le maggiori perdite di imprese si registrano, invece, per agenzie di viaggio, bar e ristoranti e trasporti. C’è poi tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, fa registrare complessivamente un vero proprio crollo con la sparizione di un’impresa su tre”.