Coldiretti e l’agricoltura del futuro: “I problemi sono tanti, ma i giovani ci salveranno”
Intervista a tutto campo al presidente regionale di Coldiretti, Francesco Ferreri, che da luglio guida anche la realtà ragusana
(26 ottobre 2018)
Crisi nera, aziende in ginocchio, tutti al capezzale dell’agricoltura morente. Da anni, in Sicilia, è un susseguirsi di piccoli drammi, dal clima impazzito ai virus, che si portano via la serenità dei produttori. Tutto questo è innegabile, soprattutto per le piccole imprese, ma c’è anche un’agricoltura fiorente e sana, un’agricoltura innovativa e che ha voglia di aggredire i mercati internazionali come mai prima d’ora, grazie ai giovani che stanno cambiando il modo di interpretare il ‘personaggio’ del produttore agricolo, rendendolo moderno, all’avanguardia e indispensabile agli occhi della società, in quanto capace di creare beni essenziali.
“Il produttore sembra aver perso il suo potere contrattuale – dice Francesco Ferreri, presidente regionale di Coldiretti Sicilia e, da luglio, alla guida anche della realtà ragusana – e deve difendere la sua impresa da avversità di ogni tipo, ma ci sono anche tantissimi giovani che sull’agricoltura, invece, stanno investendo. E non sono affatto incoscienti, anzi. Sono ragazzi che, magari, hanno studiato e vissuto lontani dalla loro terra natìa e che, una volta acquisita una buona formazione, tornano e si mettono in gioco. Il produttore siciliano è intuitivo, sa adattarsi ai cambiamenti climatici e intercettare le fette di mercato nelle quali c’è richiesta, rendendo appetibile il suo prodotto”.
“Lavora, inoltre, solo a quello che effettivamente già sa di poter vendere – prosegue il direttore di Coldiretti Ragusa, Calogero Fasulo – partendo dalla consapevolezza che, se più del 60% della produzione nostrana viene contraffatta, è perché c’è fame di Italia. All’estero la percezione dell’Italia e della Sicilia è incredibile: siamo la terra nella quale vorrebbero vivere, viaggiare, nascere”.
In effetti, il trend è proprio questo e ci dice che le nuove generazioni stanno scommettendo, oltre che sulle colture tradizionali, anche su altre totalmente nuove nella nostra Isola come il mango e l’avocado, le alghe e le lenticchie, le banane e i frutti di bosco, c’è addirittura chi alleva dromedari, fino ad arrivare al tabacco e al cotone. “Siamo i migliori in termini di produzione – prosegue Ferreri – ma la stessa cosa, purtroppo, non si può dire per la vendita, forse perché abbiamo un’immagine sbagliata, o meglio, superata, del mercato”. Ferreri, imprenditore catanese che la realtà iblea la conosce bene perché qui ha sede la sua azienda vitivinicola, fa un esempio molto semplice e d’effetto: “Prendete un mappamondo, e fate un puntino sulla Sicilia. Ebbene, sappiate che tutto il resto è mercato. Il sistema classico dei mercati non regge più, oggi sono globali, non più racchiusi dentro un piccolo spazio, ma noi ancora ci arriviamo in maniera frazionata, e dimentichiamo che è l’unione a fare la forza. Dobbiamo imparare ad andare fuori tutti insieme con un unico messaggio: la bontà e la qualità del nostro prodotto, per farlo diventare ambasciatore della nostra essenza nel mondo”.
Sicuramente belle parole, concetti molto interessanti, ma come si fa a rimanere ottimisti quando la propria azienda viene sferzata dal vento o allagata dalle piogge alluvionali che fanno straripare i fiumi? E’ sotto gli occhi di tutti il disastro delle ultime ondate di maltempo da Catania a Siracusa, dal Calatino al Ragusano, e c’è ancora chi attende i rimborsi del ciclone Athos. Senza considerare virosi, siccità, grandinate e gelate. “Esiste un fondo nazionale per il ristoro da calamità naturali, ma solo in casi specifici la pratica va effettivamente in porto, tramite PSR e copertura assicurativa. I produttori danneggiati dalle recenti piogge torrenziali – continua Ferreri – sono stati vittime del maltempo, ma anche della mancata pulizia dei letti dei fiumi. Per fare una stima dei danni è ancora troppo presto, ma calcoliamo che siano centinaia di milioni di euro solo nelle tre province di Catania, Siracusa e Ragusa. La situazione è catastrofica, ma ci deve insegnare ad affrontare questi problemi con un approccio differente. Ormai lo sappiamo che non piove più come una volta, per cui dobbiamo attrezzarci con strutture nuove, e non parlo solo di nuove serre, ma anche di nuove strutture organizzative, dai consorzi alle cooperative”.
Al di là dei singoli episodi, quelle siciliane restano condizioni climatiche che permettono di produrre tutto, e di dare sfogo ad una grande biodiversità. Quello che ci manca è un pizzico di coraggio nelle innovazioni e, soprattutto, il rispetto per la nostra stessa casa. “La vera calamità è l’incuria del territorio, stiamo riuscendo a distruggere tutto quello che i nostri padri e i nostri nonni hanno costruito. La Sicilia – dice ancora Ferreri – è piena di turisti come forse mai prima, abbiamo appeal e facciamo marketing territoriale, perché chi viene qui e mangia nei nostri ristoranti poi torna a casa e cerca i nostri prodotti. Non è ammissibile, però, che riusciamo a rovinare tutto buttando la spazzatura ai bordi delle strade. Abbiamo la responsabilità del nostro territorio, abbiamo l’oro e non riusciamo a venderlo. Dobbiamo capire che più gente viene qui e se ne va felice, più gente cercherà poi la pesca di Leonforte, il pistacchio di Bronte, la carota di Ispica, il limone di Siracusa o il cerasuolo di Vittoria”.
E proprio questa è la comunicazione positiva del territorio che Coldiretti sta facendo con i mercati di Campagna Amica, 5 in Sicilia, di cui uno a Catania e uno a Ragusa. “Attraverso questo strumento abbiamo avvicinato il produttore al consumatore e fatto nascere tra loro un sistema economico basato sulla fiducia e la qualità al giusto prezzo, eliminando gli intermediari e accorciando la filiera. Abbiamo puntato sul km 0 e siamo diventati la prima rete in Europa. Le aziende che vi sono entrate non ne sono più uscite, perché è un progetto che nasce proprio per le piccole imprese, per aggirare la GDO e vendere non solo un prodotto, ma il proprio nome”.
Le vostre battaglie per la tutela del made in Italy e per limitare gli ingressi delle merci. Come le state portando avanti e quali i risultati più importanti finora conseguiti?
Siamo riusciti nell’impresa titanica di bloccare il CETA, portando in Parlamento 2600 delibere di Comuni, Regioni e Province italiane per fermare chi voleva snaturare la nostra agricoltura, equiparandola a quella di altri paesi. Il CETA avrebbe permesso gli scambi tra Canada ed Europa senza pagamento di dazi doganali, ma, non essendo noi grandi esportatori, avremmo soprattutto importato, a discapito dei nostri prodotti. Si tratta di un accordo scritto in inglese che i nostri europarlamentari hanno votato favorevolmente senza neanche capire. Noi abbiamo fatto uno studio approfondito e grazie alla nostra traduzione sono tornati sui loro passi. Se fosse stato approvato, i nostri oltre 200 dop e igp italiani si sarebbero ridotti a 41, in Sicilia solo a tre: l’arancia rossa di Sicilia, il pistacchio di Bronte e il cappero di Pantelleria. I ragusani sarebbero spariti e il grano canadese (con il glifosato, che da noi è bandito da anni) sarebbe stato equiparato a quello italiano. Per il resto, noi purtroppo possiamo solo denunciare ma c’è chi è deputato a fare i controlli, e ci auguriamo che li faccia bene. Non dimentichiamo, però, che l’Italia è quel Paese nel quale vige una legge assurda che prevede che i dati di importazione siano secretati, quindi non sappiamo cosa effettivamente venga importato, quanto entri e dove vada a finire.
E come se non bastasse, ci penalizza pure il gap infrastrutturale, perché ricordiamo che i nostri prodotti viaggiano principalmente su gommato (cosa che, di per sé, rappresenta già un limite) ma abbiamo pure strade simili a mulattiere…
Siamo la terza nazione più importante d’Europa, una tra le prime 8 al mondo, e abbiamo strade che sembrano trazzere. Questo è un gap che non ci possiamo più permettere in un mondo dinamico dove si lavora sul filo dei secondi e non si possono perdere giornate intere per trasportare un prodotto, soprattutto merce deperibile come la nostra. E’ una situazione drammatica e il governo regionale è chiamato a decidere “cosa vuole fare da grande”, perché così non si può andare avanti, né sul fronte del commercio che turistico.
La contraffazione dei marchi made in Italy alla quale facevamo riferimento prima: come arginarla?
Partiamo dal presupposto che se i prodotti italiani e siciliani vengono contraffatti è perché c’è una richiesta impressionante. Non è un problema di prezzi, il consumatore è disposto a spendere per il prodotto di qualità. Torniamo, dunque, sempre al problema di partenza: dobbiamo essere più bravi ad aggredire i mercati e a rispondere a questa domanda.
Valentina Frasca